L’illusione del “valore percepito”
Quando accompagno gli imprenditori in percorsi di exit readiness, il primo mito che devo sfatare è questo: “La mia azienda vale di più perché l’ho costruita in vent’anni di sacrifici”.
La realtà è dura: il mercato non paga le emozioni, paga i numeri, la governance e la capacità di scalare.
Molte PMI cadono nella trappola del valore percepito: il titolare sopravvaluta la propria impresa basandosi su ricordi, sforzi e ore di lavoro, mentre l’acquirente valuta solo ciò che è documentabile, misurabile e trasferibile.
Questo scollamento è il primo errore: non avere consapevolezza del valore reale, ma basarsi su aspettative soggettive.
Errori strategici (tempistiche, motivazioni)
Il secondo gruppo di errori riguarda le strategie di timing e motivazione.
Molti imprenditori si presentano sul mercato troppo tardi, quando l’azienda è in declino, oppure troppo presto, senza avere ancora consolidato margini e processi. In entrambi i casi, il prezzo scende.
C’è poi il tema delle motivazioni: se comunichi che vendi per stanchezza, difficoltà di cassa o crisi personale, l’acquirente percepisce urgenza e riduce l’offerta.
Un exit ben preparato si annuncia invece come un’opportunità di crescita: l’imprenditore vuole passare il testimone per far scalare l’azienda a un livello successivo.
Errori organizzativi (assenza di governance e delega)
Uno degli errori più costosi è non avere governance né sistemi di delega.
Un’impresa che dipende totalmente dal fondatore vale poco, perché agli occhi del buyer non è un’azienda, ma una “persona con collaboratori”.
L’assenza di un inner circle (CFO, CMO, COO), di processi documentati e di una Balanced Scorecard che governi le performance riduce drasticamente l’attrattività.
Gli investitori vogliono aziende che funzionano anche quando il fondatore si stacca: senza questo, il prezzo scende anche del 30–40%.
Errori documentali (assenza di bilanci, contratti, report)
Il quarto errore è banalmente pratico: mancanza di documentazione.
Mi è capitato di vedere PMI con contratti non firmati, bilanci incompleti, assenza di report trimestrali o forecast.
Durante la due diligence, questi vuoti fanno scattare bandiere rosse: l’acquirente non ha certezza sui ricavi, non sa se i clienti resteranno, non può stimare rischi e debiti.
Ogni documento mancante riduce la fiducia e spinge a chiedere sconti sul prezzo o garanzie aggiuntive.
Ecco perché insisto sempre a creare la data room con 12–18 mesi di anticipo: è il modo più concreto per evitare sorprese e trattative estenuanti.
Errori relazionali (comunicazione e timing con potenziali acquirenti)
La vendita non è solo tecnica: è anche relazionale.
Un altro errore comune è comunicare troppo poco o troppo male. Alcuni imprenditori pensano di dover dire tutto subito, altri si chiudono eccessivamente. Entrambi gli estremi danneggiano la trattativa.
C’è anche il tema del timing della comunicazione interna: se i dipendenti scoprono in ritardo che l’azienda è in vendita, si crea panico. Se lo scoprono troppo presto, si generano tensioni.
Un exit coach sa calibrare i messaggi, i tempi e i livelli di disclosure, così da mantenere il team motivato e il buyer fiducioso.
Come correggere la rotta con un Exit Coach
Gli errori descritti non sono inevitabili: si possono prevenire.
Il ruolo di un Business Architect e Exit Coach come il mio è proprio questo: aiutare l’imprenditore a vedere in anticipo dove rischia di perdere valore e a costruire le condizioni per vendere bene.
Lavoriamo insieme per:
- chiarire i KPI chiave,
- ordinare governance e deleghe,
- costruire la data room completa,
- impostare la comunicazione con investitori e team,
- valorizzare gli asset intangibili.
Il risultato è un’azienda che non solo vale di più, ma viene percepita come più solida e scalabile.
Ecco la differenza tra un exit improvvisato e un exit strategico: dal caos alla chiarezza, dal ribasso al valore massimo.