Perchè procrastiniamo? Due ricercatori francesi sostengono, in uno studio pubblicato su Nature Communications, di aver trovato la risposta.
Io convengo con loro. L’ho vissuto sulla mia pelle e lo insegno.
Procrastinare, lo facciamo tutti, al lavoro, a casa, con le bollette da pagare, i documenti da sistemare, i controlli da fare, inutile prendersi in giro. In barba ai proverbi, rimandiamo a domani quello che potremmo fare oggi. A volte non senza conseguenze.
Perchè procrastiniamo? “Gli esseri umani procrastinano nonostante siano consapevoli delle potenziali conseguenze negative”, scrivono in apertura del loro lavoro due ricercatori della Sorbona che per ultimi si sono interrogati sul perché sistematicamente rimandiamo sempre a dopo, a domani, a settembre.
Perché se in alcuni casi rimandare non ha particolari conseguenze in altri potrebbe averle eccome, basti pensare ai controlli medici da fare che potrebbero ritardare una diagnosi, o anche solo alla mora su una multa da pagare. Senza contare lo stress.
Malgrado il fenomeno sia così diffuso, cosa lo scateni, a livello psicologico e neurologico è tutt’altro che chiaro.
E questo a dispetto della fitta letteratura che, soprattutto negli ultimi anni, si è accumulata in materia. Raphaël Le Bouc e Mathias Pessiglione sostengono però di aver compreso almeno in parte il fenomeno: a quanto pare l’azione del procrastinare sarebbe dovuta alla tendenza di valutare come meno impegnativi ma comunque appaganti compiti che potremmo fare in un secondo momento.
E se dovessimo prendercela con una regione in particolare del nostro cervello dove tutto questo accade la responsabile sarebbe la corteccia cingolata anteriore.
Procrastinare per evitare emozioni negative
Il lavoro dei ricercatori francesi pubblicato su Nature Communications, dicevamo, non è che l’ultimo di una lunga lista di studi dedicati al tema. D’altronde, ricordano Le Bouc e Pessiglione, ci si interroga sul perché procrastiniamo almeno dai tempi di Aristotele, secondo cui rimandare a domani palesava una mancanza di autocontrollo.
La tesi della mancanza, o meglio del fallimento dell’autocontrollo, regge ancora oggi quando si parla di procrastinazione, spesso definita anche come irrazionale, non è difficile comprendere perché considerando il rischio di conseguenze a volte spiacevoli.
Altra parola in cui ci si imbatte parlando del tema è volontaria, a sottolineare come rimandare sia una scelta, che compiamo per motivi abbastanza chiari, come ha spiegato al Guardian Fuschia Sirois, esperta del tema alla Durham University: “La procrastinazione è una forma di regolazione emotiva in cui chi ne soffre evita un compito che può far insorgere emozioni negative, disimpegnandosi o rimandandolo”.
Sulla procrastinazione sappiamo anche diverse cose legate ai fattori – molti intuibili – che possono influenzarla, grazie anche a revisioni sul tema, come quello apparso all’inizio dell’anno su Frontiers in Psychology.
Alcuni studi infatti mostrano che il tipo di sforzo da fare per svolgere il compito, i tempi per le ricompense (o comunque la risoluzione del problema), così come le caratteristiche della personalità, eventuali incentivi e responsabilità influenzano l’attività del procrastinare.
Ma perché lo facciamo, malgrado tutti i rischi – e lo stress e le ansie – che comporta rimandare di continuo quello che si deve fare?
Sappiamo che c’entra la genetica, grazie agli studi condotti sui gemelli, ma cosa accade al nostro cervello quando decidiamo di rimandare? Su questo si è concentrata la ricerca francese grazie a una serie di test comportamentali e ad analisi di risonanza magnetica compiute su alcuni partecipanti.
Meglio uno sforzo oggi o domani?
Lo studio è stato allestito in modo da comprendere il valore che i partecipanti davano alle diverse componenti di un compito – come lo sforzo da compiere, la ricompensa o la punizione – e il ruolo che il tempo aveva sulle scelte da compiere.
In sostanza è stato loro chiesto di attribuire dei valori a delle possibili ricompense (pezzi di sushi o fiori), sforzi (come memorizzare delle cifre o svolgere degli esercizi), o punizioni (come perdere il proprio telefono per qualche ora).
Parallelamente, per capire come cambiasse il valore di sforzi e ricompense in relazione al tempo e per stimare i comportamenti procrastinatori, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti le preferenze in merito all’esecuzioni di sforzi e all’ottenimento di ricompense (più o meno grandi), immediatamente o in un secondo momento.
Ad esempio, venivano consegnati loro dei moduli amministrativi da compilare a casa, per i quali avevano trenta giorni di tempo e per i quali avrebbero ricevuto una ricompensa non appena li avessero riempiti. Durante uno dei compiti i ricercatori hanno anche registrato l’attività cerebrale dei partecipanti con la risonanza magnetica, un esame che permette di osservare quali sono le zone più attive durante un determinato compito.
Perché rimandiamo sempre
Due dei risultati principali che emergono dallo studio sono che mentre i partecipanti erano chiamati a fare delle scelte si accendeva soprattutto la zona della corteccia cingolata anteriore e che il costo associato allo svolgimento di un compito sembra come diminuire con il passare del tempo. “La procrastinazione – scrivono i ricercatori – potrebbe derivare da un bias cognitivo che fa apparire lo svolgimento di un compito in un secondo momento (rispetto ad ora) meno faticoso ma non molto meno gratificante”.
Se infatti, come spiega Le Bouc, il costo sia di uno sforzo che il valore di una ricompensa diminuiscono nel tempo, ovvero con scadenze più lontane, il nostro cervello in qualche modo “calcola i costi più velocemente rispetto alle ricompense”. In altre parole il costo associato allo sforzo diminuisce di più nel tempo.
Perché però questo accada non è chiaro.
Potremmo, evolutivamente parlando, procrastinare per risparmiare le energie fino a quando non si renda necessario svolgere l’incombenza che ci spetta.
O ancora, azzardano gli autori, avere una scadenza più vicina ci farebbe compiere il compito da fare poi in meno tempo, ottimizzando quello a disposizione.
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